martedì 20 settembre 2011

Seconda tranche di spiegazioni



Dopo le divagazioni sul perché del nome sono d'obbligo quelle sul perché del blog. La scelta di iniziare è stata piuttosto sofferta. Fra gli elementi che concorrono a definire la mia condizione di ucronica c'è una viscerale avversione verso molti degli effetti collaterali della diffusione delle nuove tecnologie, quel che volgarmente viene definito "Internet", e affini. La sola parola social network - soprattutto quando ci associo le immagini concrete in cui il loro utilizzo si declina quotidianamente (oggetto possibile di un successivo post) - mi procura sinceri attacchi di conati violenti. Per limitarci solo al più diffuso, il famigerato Facebook, mi sono resa conto, ascoltando stralci di conversazione fra pensionati o casalinghe in coda al supermercato, che la mia riserva di concetti mentali e di vocaboli è oggi come oggi definibile come "molto povera". A lungo ho ignorato tutto di quel moderno galateo che prevede "accettazione" o "non accettazione" di "richieste di amicizia", l'essere "taggati", i "commenti sulla bacheca", la volontà di "condividere", la domanda fatidica "l'hai caricato su Facebook?" ecc. ecc. Man mano, facendo lavorare il mio spirito di osservazione, ho progressivamente acquisito queste nozioni. E ho tenacemente resistito, appoggiandomi fra le altre cose sul principio fondamentale secondo il quale io non voglio essere "trovata" da nessuno se non da chi voglio io; e non voglio nemmeno "trovare". Poi, in questi ultimi tempi, ho un po' ceduto. Mi sono autoconvinta che lo snobismo fossilizzato non porta mai a nulla; mi sono autoillusa di poter trarre qualche vantaggio da questa conversione al nuovo mondo. Come quando si cerca di sfruttare una persona che in realtà si disprezza. Risultato: forse anche le macchine o gli impulsi elettronici hanno un cuore e hanno capito quale fosse il mio reale atteggiamento, e così mi hanno ripagato con il nulla. Mi ritrovo così due-tre profili, ingrigiti dalla monotonia mentre gli altri "aggiornano" in modo compulsivo suscitando la mia più meschina invidia, e un pugno di mosche in mano: figli del pragmatismo più bieco (e anche un po' disperato), in un'epoca in cui risuona per ogni dove la parola "contatto" e nulla più sembra precluso al comune mortale, essi sono stati per me la prova che il mondo funziona sempre nello stesso modo e ogni realtà risulta in ultima analisi circondata da un piccolo muro di Berlino, e da, eventualmente, un'unica porta assai stretta. L'attuale percentuale di disoccupazione ha, fra le sue conseguenze, anche questo puerile atteggiamento di cui sono figli i miei miseri "profili pubblici".
Lascio perciò languire l'idea della socialità e ritorno con maggiore agio al mio individualismo assai lievemente venato di una punta di misantropia. Una volta rotto il ghiaccio con la tecnologia internettiana, anche rifiutando la cittadinanza nel suo universo parallelo si è comunque costretti a riconoscere che essa è l'unico spazio in grado di garantire: primo, virtuale visibilità a livello mondiale; secondo, effettiva libertà assoluta di mettere nero su bianco le proprie idiozie. Il tutto a costo zero e tempi autogestiti. Il paradiso, sulla carta. Paradiso naturalmente per pochi eletti. Per i più un ulteriore limbo di isolamento e  anonimato parallelo, nella sua virtualità, a quello reale. Ma a costo zero e libertà assoluta, con la sicurezza di assenza di perdite economiche e di clausole strane e traditrici nei contratti, ci si può anche lasciare andare a veleggiare nel limbo sognando il paradiso. 
Ora, ho quasi trent'anni, rientro nella categoria dei bamboccioni a casa con mamma e papà e in quella dei laureati senz'arte né parte, alimento la percentuale della disoccupazione giovanile italiana, vivo la quotidianità della mie ore sotto la spada di Damocle della sigla CV (curriculum vitae per chi avesse dimenticato la fase della vita in cui si scrive in codice agli uffici delle risorse umane), a forza di sentirmi ripetere da ogni parte che non servo perché i lavoratori già ci sono a sufficienza mi sono convinta di avere un'utilità sociale pari a quella di una pulce, e mentre vedo le mie risorse fisiche-mentali-emotive di giovane donna desiderosa di un posto nel mondo (leggi nella società attraverso il lavoro, l'indipendenza economica, l'applicazione delle proprie capacità, la realizzazione concreta di progetti, la condivisione paritaria con l'altra metà del cielo) atrofizzarsi e perdere mordente, mi son detta: perché per passare qualche ora, corroborata in più dall'illusione che qualcuno possa arrivare a leggere, non divento (usando un termine orrendo a cui ancora non ho fatto il callo e che sembra un suono onomatopeico da fumetto per esprimere qualcosa di disgustoso) una blogger? C'è qualcuno che lo mette anche nel CV……………………. 

Nessun commento:

Posta un commento